Con mentalizzazione si intende la capacità di percepire e interpretare il comportamento proprio e altrui in termini di stati emotivi, mentali e di intenzioni, quindi a prevedere e dare significato ad esso. Ha a che fare con la capacità di riflettere sulle esperienze mentali interne proprie e degli altri, di vedere noi stessi dall’esterno e gli altri dall’interno.
Una buona capacità di mentalizzare aiuta a costruire un senso di continuità nell’esperienza di sé e della relazione con l’altro. Implica la coscienza degli affetti, l’empatia e soprattutto la propensione a considerare gli altri come individui con una propria mente; una mente per sua natura non trasparente all’altro, quindi in relazione alla quale si può provare con curiosità a immaginare cosa pensi e senta, ma senza mai poterne essere sicuri.
Una scarsa capacità di mentalizzare è invece connessa all’incapacità di comprendere o di prestare attenzione ai sentimenti e alle intenzioni degli altri. Ciò comporta che gli altri sembrino incomprensibili, le interazioni sociali spaventose, frustranti o coercitive. La paura, la rabbia ed il senso di allarme che possono derivare dal non riuscire a comprendere l’altro possono far sentire la necessità di prendere il controllo, rischiando di provocare nell’altro una reazione negativa e instaurando un circolo vizioso disfunzionale.
La carenza di mentalizzazione si tramanda tra genitori e figli. Un adulto che non mentalizza non sarà purtroppo in grado di rispecchiare il figlio e quindi di rendergli possibile la comprensione del funzionamento della propria mente e delle proprie emozioni.
In condizioni normali, ormai sappiamo che il bambino già dal primo anno di vita ha un capacità di reciprocità sociale, percepisce la mimica e distingue le relazioni significative da quelle che non lo sono. Tra l’anno e i due anni di vita compare tra bambino e caregiver un’intenzionalità condivisa. Tra i due e i tre anni i bambini iniziano a costruire la così detta teoria della mente, sperimentano modalità sociali come prendere in giro, mentire, schermirsi; c’è una crescente capacità di comportarsi in modo cooperativo, giocare a fare finta ed utilizzare l’umorismo. Ecco perché diciamo che è un buon segnale quando il bambino inizia a dire le bugie: sa che la mente non è trasparente, sviluppa un senso di sé.
Dai tre anni e mezzo inizia una vera e prioria capacità di mentalizzare e immaginare che l’altro possa avere conoscenze e pensieri diversi dai propri.
I fattori principali alla base della possibilità di esplorare il mondo, interno ed esterno, quindi anche la mente propria e degli altri, sono un attaccamento sicuro quindi lo sviluppo di una fiducia di base.
Fattori protettivi per un buono sviluppo della capacità di mentalizzare risultano essere:
* Uno stile genitoriale riflessivo, quindi la capacità del genitore di riflettere in modo accurato sulle emozioni ed intenzioni del bambino
*Una buona marcatura emotiva (registro non verbale) da parte del caregiver, che serve per sottolineare al bambino che si sta recependo un suo stato emotivo, differente dal proprio
*Il rispecchiamento (registro verbale) da parte del caregiver delle emozioni del bambino, soprattutto di quelle negative, così da favorirne il controllo e la legittimazione; sempre per il principio dell’opacità della mente dell’altro, il rispecchiamento sarà proposto con atteggiamento curioso, ipotetico, e non proiettivo o troppo sicuro della propria comprensione.
Fattori di rischio risultano essere:
*Genitori non capaci di mentalizzare o che propongono una mentalizzazione distorta, non contingente o proiettiva, ad esempio con aspetti paranoici o estremamente ansiogeni.
*Genitori che sovrastimolano il bambino investendolo dei propri contenuti in modo confusivo e intrusivo provocando in lui una chiusura dei canali dell’apprendimento e l’impossibilità di processare l’informazione sociale, allo scopo di proteggersi
*Un’eccessiva attenzione dei caregivers al comportamento del bambino come tale, invece che come esito di processi emotivi e cognitivi
*Un’eccessivo accento da parte dei caregivers sul modo in cui il figlio fa sentire loro, invece che sul figlio stesso (ad esempio quando un bambino piange ed un genitore si focalizza sul fatto che gli dà fastidio invece che sul motivo del pianto e sulle cure verso il bambino)
*Attaccamento insicuro o disorganizzato, abusi, trascuratezza, traumi e vissuti che possono poi provocare del bambino assetti di eccessiva credulità o apertura all’altro o iper vigilanza protettiva
Quali sono i disturbi emotivi o psichici che possono essere legati ad una mentalizzazione mancante?
*L’autolesionismo: l’azione viene compiuta in modo dissociato, in luogo della mentalizzazione
*Il disturbo della condotta: è legato ad una scarsa capacità di mentalizzare; le persone con disturbo della condotta tendono ad avere assetti iper vigilanti perché attribuiscono all’altro intenzioni ostili, rappresentano l’altro come agente di una mente cattiva e quindi reagiscono in modo eccessivamente aggressivo.
La mentalizzazione in psicoterapia
La psicoterapia, sopratutto in età evolutiva ma non solo, lavora molto sulla mentalizzazione. Il terapeuta offre una mente in cui ritrovarsi, nell’ambito di una relazione di attaccamento e di responsività. Migliora la capacità di comprendere e quindi regolare le emozioni. Nella psicoterapia la persona può creare insieme allo psicoterapeuta delle narrative su eventi di vita e traumatici rafforzando il senso di sé come persone dotate di una mente che viene rispecchiata. Si espandono le rappresentazioni rispetto agli stati mentali e si riconoscono ed elaborano le emozioni, riducendo la tendenza all’impulsività e migliorando il senso di benessere.
[Immagini di Ofra Amit]