Ho guardato per curiosità le prime due puntate del programma della Rai “Nella mente di narciso” e l’ho trovato così orribile che vorrei condividere qualche pensiero a riguardo.
Già nelle prime battute, la presentatrice chiede agli spettatori sia loro capitato di “sentirvi privati della vostra autostima” (il seguito è, chiaramente: se sì, forse avete incontrato un narcisista).
Ora, a meno che non si stia parlando a un pubblico composto da bambini, e non è così, trovo questo messaggio pericoloso.
Trovo che veicoli un messaggio di de-responsabilizzazione e di esternalizzazione di una propria possibile vulnerabilità della cura del proprio sé di cui ogni adulto è responsabile.
Come dico spesso ai miei pazienti, nessuno ha il potere di espropriarci della nostra autostima, come nessuno ha il potere di farci sentire in colpa.
Siamo noi gli agenti nel nostro sentire e siamo noi a provare senso di disistima o colpa, quindi gli unici a poterci occupare e prendere cura di questo.
“Il narcisista” è visto come il nemico, in questa trasmissione e spesso nella nostra società.
Non lo trovo utile, per due motivi.
Il primo è che, fino a prova contraria, non esiste il gene del narcisismo: la personalità narcisistica è frutto di una storia relazionale. E’ frutto di una storia di attaccamento problematica, connotata da scarso ascolto e rispecchiamento del sé da parte delle figure primarie, i genitori.
E’ a partire da questo, dalla necessità di essere solo ciò di cui il genitore mostra di aver bisogno per veder validata dal genitore stesso la propria esistenza, che un bambino può sviluppare un falso sé e la angosciosa necessità, alla base del narcisismo, di riempire il proprio vuoto identitario attraverso la validazione dell’altro.
La psicologa che conduce la trasmissione invece colpevolizza perfino il bambino. Arriva a dire che il narcisista si vede fin dai primi tre anni di vita. Parla di bambini che si portano via il pallone quando non vincono la partita. Bambini narcisisti che è importante che le madri riconoscano, come se fossero estranee alla loro crescita, peraltro.
E’ molto spiacevole ascoltare una psicologa parlare di una situazione clinica come se non questa non fosse frutto di una storia, ma soprattutto farlo in modo giudicante e accusatorio. Questo non appartiene alla nostra professione, incentrata semmai sull’autentico desiderio di conoscere e comprendere.
Il secondo è che trovo che lo psicologo non debba mai perdere un assetto in cui l’indagine è connessa al desiderio di comprendere ed all’intenzione della cura, inteso nell’accezione del prendersi cura.
“Nemico” è l’opposto rispetto al sé, è un concetto legato all’odio. Nega la comprensione di ogni possibile tratto dell’essere umano nell’Umano che riguarda ognuno di noi, nel ventaglio delle possibili varianti che il nostro essere umani può comportare, in determinate condizioni.
Non è questo che la figura dello psicologo è chiamato a veicolare.
Nella mente dello psicologo, responsabilità, rabbia e compassione, possono stare insieme.
Non voglio generare fraintendimenti. Comprendere non significa giustificare. Non c’è dubbio che le persone narcisiste, non essendo in grado di entrare in risonanza emotiva con l’altro ma tendendo ad utilizzare l’altro come veicolo di conferma della propria identità, si comportino in modo disfunzionale e quindi doloroso nelle relazioni significative.
Nei casi trattati nella trasmissione vi è peraltro anche una condotta criminale, che va ben oltre a quanto comporta una diagnosi di narcisismo.
Va da sé che chi entra il relazione con una persona con tratti marcatamente narcisistici debba esserne consapevole e proteggere sé stesso. In questo senso, parlarne, se fatto in modo adeguato, può essere utile per identificarsi in possibili dinamiche disfunzionali e prenderne consapevolezza.
Ciò non toglie che lo psicologo debba essere adeguato al suo ruolo anche in relazione alla persona narcisista, e che vederla come il nemico non sia d’aiuto, né alla persona stessa, nel caso in cui potesse accedere ad un percorso di psicoterapia, né a chi ha intrattenuto con essa una relazione, che dovrà essere sostenuto nello sviluppare un senso di responsabilità e cura nei confronti dei propri bisogni e vissuti.