Il tema della maternità surrogata o gestazione per altri (GPA) mi interessa da tempo (ne ho scritto qui in maniera approfondita), così ho guardato la serie A body that works su Netflix.
E’ una serie così ben fatta e interessante che mi stupisce non sia più conosciuta in Italia (è stata tra le 10 più viste al mondo), soprattutto in un momento in cui il tema è così dibattuto.
La storia è appassionante e recitazione, sceneggiatura e dialoghi (alcuni dialoghi centrali nell’ultima puntata sono davvero degni di nota) sono a mio parere eccezionali, riuscendo a rispecchiare la grande complessità del tema e intrecciando molti dei fili che lo compongono.
La serie racconta le vicende di Ellie e Iddo, una coppia eterosessuale che, dopo diversi tentativi di procreazione medicalmente assistita dolorosamente falliti per via di una “difettosità” (questa è la parola che viene utilizzata in uno snodo centrale del film) dell’utero di lei, decidono di ricorrere alla GPA. L’idea viene proposta dal medico di fiducia della coppia, che chiarisce loro che “non gli interessa la causa ma la soluzione” e “la soluzione” per loro è la maternità surrogata. “Troveremo un corpo che funziona”, dice. Da qui il titolo della serie. Molto evocativo, perché si tratta proprio di questo: di un corpo che funziona, e della “soluzione”.
Di fronte all’in-possibilità, non si pone la possibilità dell’elaborazione del lutto di qualcosa che non può accadere, che non si può avere, anche se lo si sarebbe desiderato tanto. Di qualcosa che non è potuto andare come si sarebbe immaginato. C’è una soluzione esterna, ed è trovare un altro corpo.
Ellie ha inizialmente delle perplessità a riguardo, ma decide di aderire alla proposta quando, attivata dall’ennesimo trigger -“non vai bene”, “emani negatività”- sente il bisogno di poter pensare di riuscire, uscirne. Dimostrare attraverso un segno concreto –riuscire ad avere un figlio- di essere adeguata, e capace. Di poter amare.
No, non si tratta di una questione da poco, sentire di poter amare.
Il lutto non elaborato nel caso di Ellie riguarda un prolungato abbandono infantile da parte della madre, una ferita ancora dolosamente aperta, con lo sviluppo conseguente di un attaccamento insicuro e la convinzione di non essere capace di amare. Ellie ha tentato di fronteggiare questo dolore attraverso strategie di evitamento del trauma: strategie di controllo, una forte scaramanzia, l’assenza di capacità empatica.
Ellie è così spaventata dal suo senso di inadeguatezza e cosi bisognosa di risolverlo in un senso di “appartenenza”, che, invece che lavorare sull’elaborazione di un lutto che viene appesantito dall’impossibilità di concepire un figlio e di integrare in sé le sue parti sofferenti, vi contro-reagisce e decide che questo figlio lo avrà attraverso un corpo che funziona (a differenza del suo, nel suo vissuto): quello di Chen.
Nonostante i personaggi in gioco, ognuno dei quali così intimamente approfondito da consentire allo spettatore di sintonizzarsi ed empatizzare con le sue fatiche, siano persone intelligenti, con intenzioni di correttezza e gentilezza, possiamo assistere con profondo disagio all’inevitabile intrusione da parte di Ellie e Iddo nell’intimità del corpo di una persona a loro estranea, Chen.
Da spettatori, notiamo l’ambivalenza che comprensibilmente si palesa tra il tentativo da parte della coppia di manifestare interesse per la persona di Chen e il perseguimento del proprio obiettivo: avere il loro bambino. Ma proprio il bambino che avevano in mente, un bambino sano, oggetto di frequenti visite mediche, un bambino la cui gestante si comporti, nell’assunzione di integratori, nello stile di vita sano, proprio come si sarebbe comportata la madre destinataria del bambino stesso. Un bambino che viva una gestazione controllata da una madre che non è nel corpo della gestante, ma vorrebbe poterlo controllare.
“Non l’abbiamo comprata!”, ricorda Iddo a Ellie, riferendosi a Chen. E’ difficile però sentire che non sia così. Perché non siamo scindibili in parti, se non in caso di patologia.
In un complesso intreccio umano, nella serie emerge come la gestazione non sia un fatto tecnico, ma sia immersa in una storia relazionale, emotiva, privata, che ha a che fare eccome con la persona che sta portando avanti la gravidanza.
Emerge in modo importante anche il vissuto del figlio undicenne di Chen riguardo al fatto che la madre abbia nella pancia un bambino che poi “darà via appena nato”. Nessuno si era posto il problema di come avrebbe potuto vivere, in un registro fantasmatico, simbolico, questa situazione.
Ci saranno impreviste ripercussioni anche nella coppia composta da Ellie e Iddo, perché Ellie soffrirà profondamente nel vedere in Chen quello di cui lei non si sente capace, e questo renderà ancora più palese e accentuerà un sentimento di difettosità mai elaborato e integrato, che porterà alla costruzione di ulteriori meccanismi difensivi.
Ci accorgiamo che non è attraverso gli agiti che si elabora un dolore, per quanto verga percepito come intollerabile.
Si viene immersi in una grande complessità, nel pensiero e negli affetti, assistendo a questa storia, venendo introdotti in aspetti simbolici e psichici che troppo spesso vengono ignorati quando si parla di GPA in nome del tema dei diritti, come se la maternità fosse una questione politica più che psichica e simbolica.
Trovo che parlare di GPA per le coppie eterosessuali (come in questo film) sia molto diverso rispetto alla questione legata alla genitorialità per le coppie omosessuali. Nel primo caso, alcune coppie ricorrono alla GPA sentendo di non poter considerare la possibilità dell’adozione. Nell’ultima puntata a riguardo di Tutta la città ne parla su Radio 3 una delle ospiti sottolineava che i bambini adottabili sono bambini che hanno già una storia, dei traumi, mentre un bambino ottenuto con la GPA ha il corredo genetico dei genitori. Non mi dilungherò sul tema dell’onnipotenza che ho già trattato nell’altro mio scritto, ma credo che sia davvero necessario riflettere sul livello di controllo, e sull’impossibilità di accettare variabili umane che non vi sottostiano, che i mezzi della nostra società ci consentono in maniera non solo eticamente incerta ma che comporta anche la possibilità di evitare la necessità di integrare parti del sè ferite o impotenti a favore dell’agito, spesso destinato poi a riproporre gli effetti della sua mancata elaborazione sul piano relazionale ed emotivo individuale e della coppia.
Nel secondo caso, quello delle coppie omosessuali, impossibilitate a procreare per fattori oggettivi come quello di essere due persone di genere maschile, credo sarebbe importante che la lotta per l’autorizzazione alla GPA si trasformasse in una decisa lotta per poter adottare. Di questo non si parla altrettanto. Perché? A volte mi sembra sia quasi più immediato pensare di creare qualcosa di “nuovo” (in questo caso il diritto alla GPA) rispetto all’estendere qualcosa di già presente (l’adozione).
Forse, in ultimo, tutti si dovrebbe riflettere sul tema della perfezione. Di quella perfetta felicità, proprio quella che avevamo sognato da bambini, proprio nel modo in cui l’avevamo sognata o altri l’avevano sognata per noi, che abbiamo interiorizzato come unico modo per dare un senso alla nostra vita.
Si fa quel che si può, si diceva. Ma l’asticella di “quel che si può” si sposta, nel corso della storia. L’importante è che, nei suoi percorsi, la segua sempre anche il pensiero, un pensiero critico che tenga insieme aspetti etici, psicologici, scientifici, oltre che politici.